Note alla storia

Questo racconto è sostanzialmente una versione del "Canto di Natale" di Dickens con i personaggi di HP sovrapposti a quelli originali. Dal momento che la storia, però, è quella di Dickens, la loro biografia è stata modificata di conseguenza per adattarla alla storia. Pertanto, se leggete che Severus Piton non ha mai visto un fantasma né è mai andato a Hogwarts, è perché in questo AU valgono le regole della storia originale, non quelle del mondo della Rowling.

Detto questo, buona lettura.

Per prima cosa, bisogna assolutamente mettere in chiaro che Lucius Malfoy era morto, stecchito come il chiodo di una porta (sinceramente non so che senso abbia questo proverbio, secondo me era meglio il chiodo di una bara, ma pazienza). Il medico l’aveva dichiarato, il notaio aveva certificato il passaggio dell’eredità al figlio, il suo socio aveva contribuito – non propriamente con entusiasmo – alle spese per il funerale, e il corpo era stato seppellito accanto a tanti altri. Da allora, erano passati sette anni, e non c’era nessun dubbio che quell’uomo fosse del tutto e irreversibilmente morto.
Perciò, farete bene a esserne certi, miei cari lettori, altrimenti la storia che andiamo a raccontare non avrebbe nulla di meraviglioso.
 
In quegli anni, Severus Piton aveva condotto una vita del tutto normale, portando avanti gli affari del loro ufficio come se nulla fosse accaduto… più o meno, visto che il giovane Draco Malfoy si era categoricamente rifiutato di proseguire l’attività paterna, e piuttosto che badare a conservare o accrescere il patrimonio preferiva spenderlo in sciocchezze (così le considerava Piton). Perciò, malgrado sull’insegna il nome dell’ufficio restasse Malfoy & Piton - il socio ancora vivente non aveva sentito la necessità di cambiarlo -, solo una delle scrivanie era ancora occupata.
Era un sollievo per la folla di debitori dell’ufficio di cambio? Non direi proprio. Quando erano entrambi in vita, Lucius Malfoy e Severus Piton erano il loro terrore; adesso che il primo era morto, sembrava che il rimanente avesse preso anche la sua parte di autorità e paura e agisse per due. Chiunque fosse indebitato con lui sapeva che non esistevano né proroghe né patteggiamenti, nessun mezzo per ottenere una dilazione o una speranza di scioglimento del contratto: alla data di scadenza, bisognava pagare, e se non si poteva, erano guai seri. La pietà non era una merce in vendita nel negozio del cuore di Piton… ammesso che ce l’avesse, un cuore.
C’erano in verità tutti i motivi per dubitarne. Non aveva amici, Severus Piton, e non si era mai sposato, il che poteva essere considerato anche un bene, perché aveva risparmiato a eventuali figli un’orribile infanzia (del resto, già la gente si domandava come aveva fatto a sposarsi il suo ex socio). Gli unici rapporti che intratteneva con l’umanità erano quelli relativi agli affari: per il resto, poteva anche scomparire.
Quando passava vicino a qualcuno, nella sua tunica perennemente nera in estate e inverno, corvo troppo cresciuto dai capelli neri e unti, il naso a becco e gli occhi piccoli e stretti, brividi di freddo percorrevano la schiena, per quanto calda potesse essere la giornata.
Almeno fosse stato così prodigo da godere della sua ricchezza, senza dubbio duramente guadagnata: ma anche da quel lato, Piton era una delusione. Abitava in un lugubre palazzone polveroso e poco accogliente, già in rovina quando l’aveva acquistato, in compagnia solo di un’elfa domestica, trattata in modo non troppo gentile. Il fuoco veniva acceso solo nella quantità strettamente necessaria per non congelare, e i cambi di lenzuola avvenivano una sola volta ogni due settimane. Per quanto riguardava il cibo, Piton mangiava il meno possibile, sempre da solo e una sola volta al giorno.
A conti fatti, non saprei dire se sia più miracoloso che Lucius Malfoy, per quanto morto, sia riapparso in questo mondo, o che Severus Piton abbia cambiato carattere in solo una notte.
 
Quell’anno, la Vigilia di Natale aveva portato con sé la neve, candida coperta attillata e confortevole, screziata qua e là di azzurro. I negozi erano di nuovo pieni di leccornie, e il cuore di tutti riscaldato dall’avvicinarsi della festività più piacevole dell’anno. I cittadini si fondevano in sorrisi e cortesie reciproche, e nell’aria aleggiava quella sensazione di laboriosa quiete così caratteristica del Natale.
Solo nell’ufficio di Malfoy & Piton il gelo regnava indisturbato. A una grande scrivania nella stanza in fondo, sedeva il principale, chino sui fogli dei conti, il naso adunco che a momenti sembrava trasformarsi in una seconda penna. Presso la porta, il suo scrivano, Arthur Weasley, cercava disperatamente di scaldarsi le mani alla fiammella della candela. Avrebbe desiderato aggiungere un po’ di carbone nel camino, ma Piton teneva la chiave e lo sorvegliava da sotto le sopracciglia, pronto a diminuirgli il già scarso stipendio se avesse osato muoversi. E con la famiglia che aveva, Weasley non poteva permettersi di perdere altri soldi.
In quel momento, la porta dell’ufficio si aprì, e un’allegra voce, che avrebbe fatto spuntare un sorriso sulla faccia di chiunque non fosse stato Severus Piton, squillò: “Buon Natale!”
Peccato che il viso che accompagnava quella voce fosse quanto di più sgradito ci fosse a Piton in tutta Londra. Ogni volta che vedeva quei capelli neri sempre rigorosamente in disordine, quegli occhiali tondi senza montatura e soprattutto quelle pupille verdi, Piton avrebbe voluto ingoiare il primo veleno che un pozionista potesse vendergli, non importava quanto lento fosse.
“Baggianate” borbottò, cercando di scoraggiare il nuovo venuto. Peccato che Harry James Potter fosse una delle teste più cocciute su questa terra.
“Per Merlino, signor Piton, sempre così cupo? Ma che vi ha fatto il Natale, che lo odiate così?”
“E a te cosa ha fatto, che sei così felice ogni 25 dicembre di ogni benedetto anno? Non mi risulta che ti abbia fruttato qualcosa, sei povero uguale.”
“Voi siete ricco, ma non mi sembra ne ricavi una gran felicità!” Harry scosse la testa: più conosceva quell’uomo, più gli sembrava incredibile che sua madre continuasse a difenderlo contro la più che meritata antipatia generale da lui guadagnatasi.
“Semplicemente non capisco cos’abbiate tutti da festeggiare. In fondo, che cos’è Natale? Nient’altro che un giorno dell’anno, buono per guadagnare qualcosa o per starsene a poltrire come ogni altro. La gente vive, la gente muore, e nulla è diverso da qualsiasi altra ricorrenza. Perché allora non festeggiate sempre?”
“Oh, insomma!” sbottò Harry. “Non potete misurare tutto in termini di guadagno! Possibile che nella vostra vita non esista nient’altro? Nessun Natale mi ha mai arricchito, avete ragione, ma non è per questo che esiste, bensì per essere un giorno di felicità e di comprensione reciproca, un giorno dove guardare gli altri uomini come compagni nel viaggio verso la tomba…”
“Ogni giorno è buono per quello” sussurrò Piton, lasciandolo interdetto. Nondimeno, Harry ci mise poco a riprendersi.
“Strano che lo diciate voi… anche se avete ragione. Però il Natale può servire da monito per il resto dell’anno! E per quanto mi riguarda, nonostante non mi abbia mai messo uno zellino in tasca, io continuerò a festeggiarlo per il calore che mi suscita nel petto, per la gioia che ho nel rivedere i miei amici, e per la sensazione di famiglia che mi fa andare avanti negli altri giorni!”
Quest’ultima affermazione venne salutata da un timido applauso di Arthur Weasley, che, nascosto nel suo angolo di scrivano, non si era perso nemmeno una parola. Applauso che smise subito quando Piton dardeggiò su di lui uno sguardo che lo fece tremare.
“Ma che oratore che sei…” commentò poi sarcastico, tornando a rivolgersi a Harry. “Come mai non sei divenuto Ministro della Magia? Gli appoggi non ti mancano…”
“Non mi piace la politica” alzò le spalle Harry. “Comunque, sono venuto per invitarvi, come ogni anno, alla nostra cena di Natale. Mia madre…”
“Conosci già la mia risposta, ragazzo” lo interruppe Piton. “E’ la stessa ogni anno. Buon pomeriggio.” Detto questo, chinò di nuovo lo sguardo sul suo libro di conti.
Harry sapeva bene che ciò significava che la conversazione era finita, quindi alzò le spalle e si avviò verso l’uscita, fermandosi solo per fare gli auguri al signor Weasley, che ricambiò con entusiasmo.
“Eccone un altro…” borbottò Piton, pensando che fosse assurdo che uno scribacchino pagato con la somma di quindici zellini alla settimana potesse essere così allegro.
Harry se n’era andato da poco, quando la porta dell’ufficio si riaprì, lasciando entrare un uomo alto e magro, dai radi capelli corti e dal viso che sembrava malato.
“Il signor Piton… o il signor Malfoy?” chiese al signor Weasley, il quale per tutta risposta gli indicò il suo principale.
“Il signor Malfoy è morto da sette anni” disse Piton in tono neutro, appoggiandosi allo schienale per guardare bene il nuovo arrivato.
“Sono comunque sicuro che la sua generosità è ben rappresentata dal socio superstite” sorrise l’altro, porgendogli la mano. “Mi chiamo Lupin, Remus Lupin.” Aspettò per qualche minuto che Piton la stringesse, ma visto che l’altro non diede alcun segno di volerlo fare, la ritirò.
“Faccio parte di un comitato che, vede, sta raccogliendo aiuti per i poveri di questa città, perché almeno in questa ricorrenza abbiano la possibilità di un pasto caldo, di un ricovero e…”
“Prigioni e ospizi non sono più in funzione?”
Lupin restò per un attimo senza parole. “Be’… sì, ma…”
“Che vadano lì, allora.” Non c’era nessuna particolare animazione, nelle parole di Piton, solo la rigida sequenza di causa ed effetto.
“Molti non possono… alcuni anzi preferirebbero morire, piuttosto che…”
“Lo facciano pure, così diminuirà la popolazione in eccesso. Buon pomeriggio.”
“Ma signore… Un solo gesto per quella gente può significare molto… può illuminare la loro vita, convincerli che c’è per loro speranza…”
“La speranza non è una merce che sono interessato a vendere” lo interruppe astioso Piton. “Io contribuisco a sostenere le istituzioni che ho nominato, e nulla di più! Buon pomeriggio” concluse poi, tornando a concentrarsi sul libro dei conti.
Capendo che era inutile insistere, Lupin si diresse alla porta, scuotendo la testa. Aveva bisogno di ritrovare un po’ di calore umano.
 
“Immagino mi chiederete tutta la giornata libera.”
Questa semplice frase, detta con un tono di voce completamente anonimo ma carico di sottintesi, fece rabbrividire il povero Arthur Weasley, che già iniziava a pregustarsi il ritorno a casa per la sera della Vigilia, e la festa del giorno dopo.
“Ehm… ecco… sì…” proferì con voce flebile.
“Spero vi rendiate conto che è un’ingiustizia” continuò Piton. “Se io vi togliessi uno zellino dallo stipendio, vi considerereste derubato, e avreste ragione. Ma perché io non mi dovrei considerare derubato, nel pagarvi una giornata di lavoro senza che voi lavoriate?”
“E’… è la Vigilia di Natale…” La logica del suo padrone non faceva una grinza, e quella era l’unica giustificazione che poteva trovare.
“Già…” proferì Piton, con una smorfia. “Suppongo allora di dovervela dare. Ma vedete di venire puntuale dopodomani.”
“Senza dubbio!” esclamò Weasley, raggiungendo poi velocemente la porta.
Una volta fuori, aspirò voluttuosamente l’aria della sera. Aveva sempre pensato che ci fosse qualcosa di magico, nell’aria della Vigilia di Natale. Non avrebbe saputo dire cosa di preciso, era qualcosa che sentiva sulla pelle, come la carezza di un vento immaginario, una sottile brezza nel petto che gli faceva venire voglia di correre e saltare come quando era un bambino.
Quella sera, poi… con Londra sotto la neve, i camini che fumavano, le stelle splendenti, occhi curiosi sul mondo dei mortali, il silenzio… Merlino, quel silenzio che non è un silenzio, ma un concerto di voci che sussurrano aspettando la stessa gioia, con un solo cuore e una sola volontà… Già sentiva alcune lacrime spuntargli sugli occhi, già gli sembrava di sentirlo, quel coro di speranze represse per tutto un anno e ora libere, quel carico di desideri e di amore così immenso…
Iniziò a ridere, di un riso che sgorgava dal suo cuore di buon uomo che dopotutto poteva e doveva essere felice, di quella felicità che è di tutti perché nessuno ha il diritto di privare un altro della speranza di sentire almeno un giorno gli altri uomini come fratelli.
 
Se avesse saputo cosa quella notte preparava al suo principale, forse avrebbe riso ancora più di cuore.

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