«James?»
Erano seduti sul cornicione della torre più alta del castello di Hogwarts. James aveva invitato Lily al giro panoramico della Scuola a cavallo della sua Nimbus. Incredibilmente, lei aveva accettato.
Ancora più stupefacente, però, era che lei l’avesse chiamato per nome. Era la prima volta in sei anni, la prima volta da quando aveva messo gli occhi su di lei, che Lily pronunciava il suo nome. Bastò quell’attimo a convincerlo che “James” fosse il nome più bello che esistesse, nessun altro nome avrebbe potuto suonare così dolce sulle labbra di Lily. Doveva ricordarsi di ringraziare i suoi genitori per averlo scelto. Anzi, tanto per essere sicuri, avrebbe spedito loro un biglietto appena fosse tornato nel dormitorio.
«Sì?»
«Io… credo di doverti delle scuse». Sembrava così dispiaciuta e imbarazzata che James ebbe la tentazione di consolarla, di dirle che no, non c’era nessun bisogno di scusarsi. Che qualsiasi cosa credesse di aver fatto, lui l’aveva già perdonata.
Ma poi la curiosità ebbe la meglio e chiese: «Per che cosa, Lily?»
Lily sospirò e si voltò a guardarlo in viso. Il verde dei suoi occhi era così limpido che James riusciva quasi a specchiarcisi e dovette faticare a concentrarsi su quello che Lily stava cercando di dire, pur mantenendo allacciati i loro sguardi.
«Di aver detto che siete uguali. Quel giorno».
Non ci fu bisogno di specificare: James capì. Quel giorno di un anno e mezzo prima, quando lui era stato così idiota da importunare Piton solo perché Sirius si stava annoiando. Non aveva idea che poi Lily ne avrebbe sofferto così tanto. Non aveva idea che Piton l’avrebbe ferita in quel modo e, maledizione, non passava giorno senza che lui desiderasse di poter tornare indietro, per cancellare il dolore dal viso di Lily quando Piton aveva sputato: «Non mi serve l’aiuto di una piccola schifosa Mezzosangue».
Ogni volta che ci pensava, gli veniva voglia di fare Piton a pezzi, di torcergli il collo, di scrollarlo tanto violentemente da fargli perdere coscienza di sé. E ci aveva provato, schiumando rabbia, a costringerlo a rimangiarsi quello che aveva detto. Ma non aveva senso, no? Lei aveva ragione, come sempre. «Non voglio che mi chieda scusa perché l’hai costretto tu!» E poi:«Siete uguali, voi due!»
Quella frase carica di risentimento era stata l’incubo peggiore di James per molto tempo.
«Non… non fa niente».
«Invece fa. No, lasciami finire» aggiunse, perché James aveva aperto la bocca per interromperla. «L’ho detto perché… ero ferita, ero arrabbiata. E stupidamente pensavo che se tu quel giorno l’avessi lasciato stare, lui non mi avrebbe chiamata in quel modo. Ma mi sbagliavo. E voglio che tu sappia che sapevo di essere in errore nel momento stesso in cui lo dicevo. Severus… era già da anni che frequentava amicizie poco raccomandabili e io gli attribuivo mille scusanti perché gli volevo bene e avrei voluto essere cieca». Per un attimo, James temette che Lily avrebbe pianto, ma lei non lo fece. «Non ho mai creduto che voi foste uguali. Tu sei tutto quello che lui non è, lo sei sempre stato. Tutto quello che lui avrebbe voluto essere. Solare, adorato da tutti, un asso del Quidditch…». James ammiccò e lei aggiunse con un sorriso: «Arrogante…»
«Simpatico e incredibilmente affascinante?» chiese lui, passandosi teatralmente una mano tra i capelli.
«Adesso esageri, Potter».
Lily gli premette una mano sul petto e lo spinse giù dal cornicione. Ci vollero un paio di capriole a mezz’aria perché James si mettesse in sella alla scopa che stringeva nel pugno, mentre la risata argentina di Lily gli penetrava nell’anima.