Note alla storia
Ero molto in dubbio se pubblicare questa storia, ma ho deciso di farlo ora prima che mi passi il coraggio. Dedicata a Mapina che è stata la prima a leggerla e che ha insistito perché la pubblicassi e a LadyHawke che è diventata la mia compagna di bagordi notturni... no, non pensate male, non è il caso!
Il rumore secco della porta sbattuta gli risuonava ancora nelle orecchie quando si materializzò in un vicolo nei pressi di Victoria Station. Si incamminò a passo spedito per stradine tortuose che si snodavano tra anonimi prefabbricati e case dimesse.
Un uomo leggeva il giornale seduto sui gradini di un portico; di fronte, un ragazzino verniciava una staccionata cadente fischiettando un motivetto popolare.
Li oltrepassò, calciando con forza tutti i ciotoli in cui si imbatteva.
Più avanti, un uomo e una donna sedevano abbracciati in una veranda, lo sguardo adorante posato su un bambino che gattonava ai loro piedi.
Accelerò il passo e si passò la mano sugli occhi, come a voler cancellare quella vista che nonostante i suoi sforzi continuava a riproporglisi spietata.
“Cosa credevi,razza di imbecille? Che tutti fossero dei vigliacchi come te?” disse una vocina irosa nella sua testa.
Finse di non ascoltarla e proseguì, fissando ostinatamente la strada davanti a se per non vedere ancora il mondo che lo circondava.
Svoltò in un vicolo angusto sulla destra dove dopo pochi metri su una porta c’era una vecchia insegna sgangherata. Da dentro provenivano delle risate e il tintinnio di bicchieri.
Esitò un momento, poi sospinse l’uscio ed entrò. Era un locale piuttosto piccolo e non molto affollato, un gruppo di uomini forse già ubriachi rideva sguaiatamente intorno a un vecchio tavolaccio in un angolo; davanti al bancone altri avventori bevevano qualcosa arrampicati sugli alti sgabelli, alcuni chiacchierando, altri chiusi nel loro silenzio.
Il pavimento di legno cigolò sotto i suoi passi mentre attraversava la stanza guardandosi intorno ma senza realmente vedere.
“Una vodka per favore” borbottò una volta giunto al bancone, lasciando cadere alcuni spiccioli davanti al barista. Attese il suo bicchiere e andò ad accomodarsi su uno sgabello in un angolo.
Trangugiò il liquore e poggiò i gomiti sul ripiano, nascondendo la testa tra le mani.
“Remus?”
Passi affrettati sulle scale annunciarono l’arrivo di sua moglie.
“Remus, amore, ci sei?” chiamò ancora, varcando la porta del salotto.
“Sì, Dora, sono qui” rispose lui, abbassando il libro che stava leggendo.
“Non rispondevi, credevo fossi uscito senza salutarmi”.
“Ma no, tesoro, sai che non lo farei mai” fece lui, abbozzando un sorriso.
“Remus, ho una cosa da dirti”.
“Cosa?”.
“Non vuoi provare ad indovinare?” chiese sedendosiglisi accanto e posandogli la testa sulla spalla.
“Non ho proprio idea, Dora. Ma avanti, dimmelo, ora sono curioso!”.
“Davvero non vuoi provare ad indovinare?” chiese lei, un po’ delusa.
Lui si chinò a scoccarle un bacio sulla fronte per incitarla a continuare.
“E va bene, signor Lupin, mi hai quasi convinta… riprova e sarai più fortunato…”.
Rise e le diede altri due baci sulle labbra.
“Posso saperlo, adesso? O vuoi che mi genufletta?”
Lei rise, poi prese fiato e disse “Sono incinta, Remus. Avremo un bambino!”.
Il sangue gli si gelò nelle vene e la testa prese a girargli vorticosamente.
“Sei… incinta?” chiese in un sussurro.
“Sì, amore, sono incinta! Non sei contento? E poi ti stupisce tanto la cosa? In fondo c’eri anche tu quando è successo, no?”.
Deglutì, cercando di inghiottire un nodo che gli chiudeva la gola.
“Ma… ma certo che sono felice tesoro, è… è splendido!” esclamò abbracciandola e baciandola, senza però riuscire a suonare del tutto convinto.
Ma lei era troppo presa, troppo felice per accorgersene, per cogliere una sfumatura di panico dove avrebbe dovuto esserci soltanto la gioia.
Sbatté il bicchiere sul bancone per richiamare l’attenzione del barista.
“Un whisky doppio per favore”.
Dopo pochi secondi anche il secondo bicchiere era vuoto.
“Una tequila” gridò con voce un po’ più stridula del normale.
“Di già?” fece un uomo alla sua destra. Non si girò neanche a guardarlo né tanto meno rispose, perso nei suoi pensieri.
Rimasero abbracciati a lungo.
Più tardi, a letto, lei gli prese la mano.
“Remus, lo so che ci sono tanti problemi… lo so che è difficile, ma credo che insieme ce la faremo”.
“Hai ragione” sussurrò lui, incapace di aggiungere altro, la voce che gli moriva in gola.
Strinse la mano della moglie finché lei non si addormentò, accarezzandole le piccole dita affusolate. Poi rimase immobile, gli occhi spalancati a fissare il buio della notte, mille pensieri che gli giravano vorticosamente per la mente, senza riuscire a prendere sonno.
Scese dal letto e uscì di soppiatto dalla stanza. Si vestì nella stanza degli ospiti, poi scese silenziosamente le scale. Giunto in cucina, strappò un foglio dal blocco della spesa e scrisse “Perdonami, Dora. Ma è meglio così. Abbi cura di te. Con amore. Remus”.
Lasciò il biglietto sul tavolo e preso il mantello dall’attaccapanni, uscì in strada.
“Un whisky” gridò ancora, la voce arrochita dall’alcol.
“Ma questo è l’ultimo… hai già bevuto abbastanza” fece il barista, posando l’ennesimo bicchiere sul ripiano davanti a lui.
Ingurgitò il liquore d’un fiato e lasciò cadere altri soldi sul bancone. Poi scese dallo sgabello, malfermo sulle gambe, ed uscì dal locale.
Rabbrividì, appoggiato al muro del vicolo. Fece qualche passo e si sedette sulla soglia di un portone, scosso dai conati di vomito.
“Sei proprio una femminuccia, Moony” aveva detto Sirius.
“Dai, Sirius, lascialo in pace” aveva replicato il ratto traditore.
“Dai, Peter, non si può negare che sia una femminuccia, ma noi gli vogliamo bene lo stesso, no?” aveva riso Sirius, nel suo modo inconfondibile.
Era la notte dopo il matrimonio di James e Lily, Nel settembre 1979. Avevano fatto baldoria fino all’alba e avevano bevuto come spugne.
“Be’, scommetto che ora ti sentirai meglio, Moony: ormai hai buttato fuori anche l’anima, vedrai che tra un po’ ti sentirai di nuovo bene” aveva detto James, avvolto nel suo vestito da cerimonia, un sorriso rassicurante stampato sulle labbra. James. James il campione, il malandrino, l’amico fedele, il marito, il padre, l’eroe di guerra. James si sarebbe vergognato di lui, avrebbe storto la faccia come quando vedeva Mocciosus intralciargli la strada. Si sarebbe vergognato Prongs, avrebbe provato disgusto per lui.
“Non mi interessano i rischi, Remus, io non lo lascerò da solo: sarò al suo fianco fino alla fine, come avrei dovuto fare con James. Fosse l’ultima cosa che faccio” aveva detto Sirius quel giorno di giugno, la determinazione negli occhi. Sirius. Il bello, affascinante, leale, coraggioso, sincero, appassionato Sirius. Anche lui, a pensarci, si sarebbe vergognato di lui. L’avrebbe guardato con i suoi occhi scuri colmi di disprezzo, come quelli che aveva riservato a Peter, quella notte nella Stamberga.
“Anche Harry, a soli diciassette anni, è più coraggioso di te” sibilò la vocina nella sua testa “e tu non sei stato neanche abbastanza uomo da ammettere che aveva ragione lui”.
Sentì un singhiozzo e solo dopo alcuni secondi realizzò che veniva da lui. Seduto su quel gradino, pianse le lacrime che non aveva pianto da anni, odiando il destino maledetto che aveva lasciato lui in vita, strappando via i suoi amici che non lo meritavano.
“Ti ringrazio, Tom, ma è ora che io me ne vada”.
Cinque giorni dopo, vuotò il suo portamonete sul bancone del Paiolo Magico, dove aveva passato le quattro notti precedenti.
“Come vuoi, Remus. È sempre un piacere rivederti da queste parti” fece l’anziano barista stringendogli la mano calorosamente.
“Grazie ancora di tutto. Ci si vede, Tom”.
Esitò un momento, lo sguardo perso nel vuoto, poi si diresse a passo spedito verso il cortiletto interno del locale, da cui si aveva accesso a Diagon Alley, e si smaterializzò.
La schiena addossata al muro, fissava la vetrina semivuota dall’altra parte della strada: dove una volta era stata la merce, ora soltanto alcuni manichini prendevano posto dietro il vetro.
La gente passava frettolosa, gettando occhiate distratte a quelle vetrine stranamente così sguarnite.
Una giovane donna dai capelli color topo apparve sul marciapiede di fronte, il viso pallido, gli occhi spenti. Rimase immobile per qualche secondo, persa nei suoi pensieri, poi iniziò a camminare velocemente, come volesse scappare da quel luogo. Sussultò, quando qualcuno la afferrò per la vita, costringendola a fermarsi. Subito la mano scattò verso la tasca e si strinse intorno alla bacchetta.
“Sapevo che ti avrei trovata qui, ho parlato con Molly ieri” si interruppe, timoroso di continuare “il bambino… nostro figlio, sta bene?”.
“Sì, sta… sta bene, Remus. Grazie per esserti ricordato che è anche tuo” fece lei, gli occhi umidi di lacrime.
“Puoi perdonarmi, o è troppo tardi?”.
“Aspettavo solo che me lo chiedessi” sussurrò, le lacrime che iniziavano a cadere copiose “e avevo tanta paura che non sarebbe successo… non ora, almeno”.
“Dora mi dispiace tanto, se vuoi che me ne vada ti capisco, me lo sono meritato e se…”.
“Oh, ma stai un po’ zitto!” gridò lei con voce acuta, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
“Hai ragione. Allora io me ne vado. Volevo solo sapere che tu e il bambino…”.
Si bloccò quando la mano di lei lo colpì sulla guancia, poi si sollevò e lo colpì ancora e ancora.
“Mi lasci, vai via nella notte senza neanche salutarmi, lasciando solo un cazzo di biglietto sul tavolo della cucina, non mi dai notizie per giorni facendomi morire di paura…” riprese fiato e urlò più forte “e ora, che finalmente sei tornato, osi venirmi a dire che te ne vai ancora e che magari lo fai perché sono io che non ti voglio?”.
“Dora… amore, io… non voglio andare via, dicevo solo che se non mi vuoi…”.
Di nuovo fu interrotto dalla mano di lei che si alzò e lo colpì sulla guancia, poi sulla bocca.
“Stai zitto ti ho detto! Zitto, hai capito? E non azzardarti a dire che io, Nymphadora Tonks, non ti voglio, mentre sei tu che sei sparito!” la voce le si spezzò e rimase in silenzio per alcuni istanti, poi sussurrò “ti chiedo solo di abbracciarmi e non lasciarmi più, Remus, credi sia una richiesta troppo alta per te?”.
“Se è questo che vuoi, principessa, mi sottometto alla tua volontà e ti giuro che qualunque cosa accada, sarò con voi, per sempre”.
Un uomo leggeva il giornale seduto sui gradini di un portico; di fronte, un ragazzino verniciava una staccionata cadente fischiettando un motivetto popolare.
Li oltrepassò, calciando con forza tutti i ciotoli in cui si imbatteva.
Più avanti, un uomo e una donna sedevano abbracciati in una veranda, lo sguardo adorante posato su un bambino che gattonava ai loro piedi.
Accelerò il passo e si passò la mano sugli occhi, come a voler cancellare quella vista che nonostante i suoi sforzi continuava a riproporglisi spietata.
“Cosa credevi,razza di imbecille? Che tutti fossero dei vigliacchi come te?” disse una vocina irosa nella sua testa.
Finse di non ascoltarla e proseguì, fissando ostinatamente la strada davanti a se per non vedere ancora il mondo che lo circondava.
Svoltò in un vicolo angusto sulla destra dove dopo pochi metri su una porta c’era una vecchia insegna sgangherata. Da dentro provenivano delle risate e il tintinnio di bicchieri.
Esitò un momento, poi sospinse l’uscio ed entrò. Era un locale piuttosto piccolo e non molto affollato, un gruppo di uomini forse già ubriachi rideva sguaiatamente intorno a un vecchio tavolaccio in un angolo; davanti al bancone altri avventori bevevano qualcosa arrampicati sugli alti sgabelli, alcuni chiacchierando, altri chiusi nel loro silenzio.
Il pavimento di legno cigolò sotto i suoi passi mentre attraversava la stanza guardandosi intorno ma senza realmente vedere.
“Una vodka per favore” borbottò una volta giunto al bancone, lasciando cadere alcuni spiccioli davanti al barista. Attese il suo bicchiere e andò ad accomodarsi su uno sgabello in un angolo.
Trangugiò il liquore e poggiò i gomiti sul ripiano, nascondendo la testa tra le mani.
“Remus?”
Passi affrettati sulle scale annunciarono l’arrivo di sua moglie.
“Remus, amore, ci sei?” chiamò ancora, varcando la porta del salotto.
“Sì, Dora, sono qui” rispose lui, abbassando il libro che stava leggendo.
“Non rispondevi, credevo fossi uscito senza salutarmi”.
“Ma no, tesoro, sai che non lo farei mai” fece lui, abbozzando un sorriso.
“Remus, ho una cosa da dirti”.
“Cosa?”.
“Non vuoi provare ad indovinare?” chiese sedendosiglisi accanto e posandogli la testa sulla spalla.
“Non ho proprio idea, Dora. Ma avanti, dimmelo, ora sono curioso!”.
“Davvero non vuoi provare ad indovinare?” chiese lei, un po’ delusa.
Lui si chinò a scoccarle un bacio sulla fronte per incitarla a continuare.
“E va bene, signor Lupin, mi hai quasi convinta… riprova e sarai più fortunato…”.
Rise e le diede altri due baci sulle labbra.
“Posso saperlo, adesso? O vuoi che mi genufletta?”
Lei rise, poi prese fiato e disse “Sono incinta, Remus. Avremo un bambino!”.
Il sangue gli si gelò nelle vene e la testa prese a girargli vorticosamente.
“Sei… incinta?” chiese in un sussurro.
“Sì, amore, sono incinta! Non sei contento? E poi ti stupisce tanto la cosa? In fondo c’eri anche tu quando è successo, no?”.
Deglutì, cercando di inghiottire un nodo che gli chiudeva la gola.
“Ma… ma certo che sono felice tesoro, è… è splendido!” esclamò abbracciandola e baciandola, senza però riuscire a suonare del tutto convinto.
Ma lei era troppo presa, troppo felice per accorgersene, per cogliere una sfumatura di panico dove avrebbe dovuto esserci soltanto la gioia.
Sbatté il bicchiere sul bancone per richiamare l’attenzione del barista.
“Un whisky doppio per favore”.
Dopo pochi secondi anche il secondo bicchiere era vuoto.
“Una tequila” gridò con voce un po’ più stridula del normale.
“Di già?” fece un uomo alla sua destra. Non si girò neanche a guardarlo né tanto meno rispose, perso nei suoi pensieri.
Rimasero abbracciati a lungo.
Più tardi, a letto, lei gli prese la mano.
“Remus, lo so che ci sono tanti problemi… lo so che è difficile, ma credo che insieme ce la faremo”.
“Hai ragione” sussurrò lui, incapace di aggiungere altro, la voce che gli moriva in gola.
Strinse la mano della moglie finché lei non si addormentò, accarezzandole le piccole dita affusolate. Poi rimase immobile, gli occhi spalancati a fissare il buio della notte, mille pensieri che gli giravano vorticosamente per la mente, senza riuscire a prendere sonno.
Scese dal letto e uscì di soppiatto dalla stanza. Si vestì nella stanza degli ospiti, poi scese silenziosamente le scale. Giunto in cucina, strappò un foglio dal blocco della spesa e scrisse “Perdonami, Dora. Ma è meglio così. Abbi cura di te. Con amore. Remus”.
Lasciò il biglietto sul tavolo e preso il mantello dall’attaccapanni, uscì in strada.
“Un whisky” gridò ancora, la voce arrochita dall’alcol.
“Ma questo è l’ultimo… hai già bevuto abbastanza” fece il barista, posando l’ennesimo bicchiere sul ripiano davanti a lui.
Ingurgitò il liquore d’un fiato e lasciò cadere altri soldi sul bancone. Poi scese dallo sgabello, malfermo sulle gambe, ed uscì dal locale.
Rabbrividì, appoggiato al muro del vicolo. Fece qualche passo e si sedette sulla soglia di un portone, scosso dai conati di vomito.
“Sei proprio una femminuccia, Moony” aveva detto Sirius.
“Dai, Sirius, lascialo in pace” aveva replicato il ratto traditore.
“Dai, Peter, non si può negare che sia una femminuccia, ma noi gli vogliamo bene lo stesso, no?” aveva riso Sirius, nel suo modo inconfondibile.
Era la notte dopo il matrimonio di James e Lily, Nel settembre 1979. Avevano fatto baldoria fino all’alba e avevano bevuto come spugne.
“Be’, scommetto che ora ti sentirai meglio, Moony: ormai hai buttato fuori anche l’anima, vedrai che tra un po’ ti sentirai di nuovo bene” aveva detto James, avvolto nel suo vestito da cerimonia, un sorriso rassicurante stampato sulle labbra. James. James il campione, il malandrino, l’amico fedele, il marito, il padre, l’eroe di guerra. James si sarebbe vergognato di lui, avrebbe storto la faccia come quando vedeva Mocciosus intralciargli la strada. Si sarebbe vergognato Prongs, avrebbe provato disgusto per lui.
“Non mi interessano i rischi, Remus, io non lo lascerò da solo: sarò al suo fianco fino alla fine, come avrei dovuto fare con James. Fosse l’ultima cosa che faccio” aveva detto Sirius quel giorno di giugno, la determinazione negli occhi. Sirius. Il bello, affascinante, leale, coraggioso, sincero, appassionato Sirius. Anche lui, a pensarci, si sarebbe vergognato di lui. L’avrebbe guardato con i suoi occhi scuri colmi di disprezzo, come quelli che aveva riservato a Peter, quella notte nella Stamberga.
“Anche Harry, a soli diciassette anni, è più coraggioso di te” sibilò la vocina nella sua testa “e tu non sei stato neanche abbastanza uomo da ammettere che aveva ragione lui”.
Sentì un singhiozzo e solo dopo alcuni secondi realizzò che veniva da lui. Seduto su quel gradino, pianse le lacrime che non aveva pianto da anni, odiando il destino maledetto che aveva lasciato lui in vita, strappando via i suoi amici che non lo meritavano.
“Ti ringrazio, Tom, ma è ora che io me ne vada”.
Cinque giorni dopo, vuotò il suo portamonete sul bancone del Paiolo Magico, dove aveva passato le quattro notti precedenti.
“Come vuoi, Remus. È sempre un piacere rivederti da queste parti” fece l’anziano barista stringendogli la mano calorosamente.
“Grazie ancora di tutto. Ci si vede, Tom”.
Esitò un momento, lo sguardo perso nel vuoto, poi si diresse a passo spedito verso il cortiletto interno del locale, da cui si aveva accesso a Diagon Alley, e si smaterializzò.
La schiena addossata al muro, fissava la vetrina semivuota dall’altra parte della strada: dove una volta era stata la merce, ora soltanto alcuni manichini prendevano posto dietro il vetro.
La gente passava frettolosa, gettando occhiate distratte a quelle vetrine stranamente così sguarnite.
Una giovane donna dai capelli color topo apparve sul marciapiede di fronte, il viso pallido, gli occhi spenti. Rimase immobile per qualche secondo, persa nei suoi pensieri, poi iniziò a camminare velocemente, come volesse scappare da quel luogo. Sussultò, quando qualcuno la afferrò per la vita, costringendola a fermarsi. Subito la mano scattò verso la tasca e si strinse intorno alla bacchetta.
“Sapevo che ti avrei trovata qui, ho parlato con Molly ieri” si interruppe, timoroso di continuare “il bambino… nostro figlio, sta bene?”.
“Sì, sta… sta bene, Remus. Grazie per esserti ricordato che è anche tuo” fece lei, gli occhi umidi di lacrime.
“Puoi perdonarmi, o è troppo tardi?”.
“Aspettavo solo che me lo chiedessi” sussurrò, le lacrime che iniziavano a cadere copiose “e avevo tanta paura che non sarebbe successo… non ora, almeno”.
“Dora mi dispiace tanto, se vuoi che me ne vada ti capisco, me lo sono meritato e se…”.
“Oh, ma stai un po’ zitto!” gridò lei con voce acuta, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
“Hai ragione. Allora io me ne vado. Volevo solo sapere che tu e il bambino…”.
Si bloccò quando la mano di lei lo colpì sulla guancia, poi si sollevò e lo colpì ancora e ancora.
“Mi lasci, vai via nella notte senza neanche salutarmi, lasciando solo un cazzo di biglietto sul tavolo della cucina, non mi dai notizie per giorni facendomi morire di paura…” riprese fiato e urlò più forte “e ora, che finalmente sei tornato, osi venirmi a dire che te ne vai ancora e che magari lo fai perché sono io che non ti voglio?”.
“Dora… amore, io… non voglio andare via, dicevo solo che se non mi vuoi…”.
Di nuovo fu interrotto dalla mano di lei che si alzò e lo colpì sulla guancia, poi sulla bocca.
“Stai zitto ti ho detto! Zitto, hai capito? E non azzardarti a dire che io, Nymphadora Tonks, non ti voglio, mentre sei tu che sei sparito!” la voce le si spezzò e rimase in silenzio per alcuni istanti, poi sussurrò “ti chiedo solo di abbracciarmi e non lasciarmi più, Remus, credi sia una richiesta troppo alta per te?”.
“Se è questo che vuoi, principessa, mi sottometto alla tua volontà e ti giuro che qualunque cosa accada, sarò con voi, per sempre”.
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