Note alla storia

Innanzi tutto, i ringraziamenti: a Jude, beta implacabile ma bravissima, di una simpatia e di una bravura rare, che è anche una splendida persona. Grazie di aver fatto questo immenso lavoro per me, sotto pressione e con tutti i tuoi impegni! Sei brillante e puntuale e paziente nelle correzioni, grazie per i tuoi incoraggiamenti! Un grazie anche a Miss Granger, le cui parole mi hanno fatto molto piacere e a Chado, che ha bandito questo concorso e che gestisce Accio ff con pazienza e passione. Grazie ai miei figli ed al loro pisolino pomeridiano che mi permette di scrivere.
E infine una dedica speciale: dovunque tu sia, dolce papi, spero che tu possa leggerlo. Questo racconto è per te.

Note al capitolo

1970: Nuovi allievi ad Hogswarts...
PICCOLI MAGHI CRESCONO
L’era dei Malandrini

( cit. scelta: STARE SU UN PIEDISTALLO SIGNIFICA STARE NELL’ANGOLO)


Capitolo 1: Partenze.


Il sole filtrava luminoso attraverso la tenda di pesante raso avorio. La donna, alta, maestosa, piuttosto avanti negli anni aveva ripiegato degli indumenti scuri e, con metodica calma, li passava ad un ragazzino dal viso sottile, con i lineamenti decisi, capelli neri decisamente spettinati.
“Dobbiamo andare al San Mungo, domani, mamma?” chiese il ragazzo, sistemando i vestiti a strati nel baule di robusto cuoio scuro, spalancato ai piedi del letto.
La madre si era seduta sul letto, coperto da una coperta patchwork nei toni del verde. “Sì, James… andremo da Carl, il vecchio compagno di scuola di tuo padre… quel tuo stropicciare gli occhi mi preoccupa. No, stai attento. Metti i vasetti di pozioni all’interno del calderone, così staranno più al sicuro.”
“In effetti…” Il ragazzo lasciò la frase in sospeso e alzò gli occhi, di un caldo color nocciola, verso la madre. Era una donna avanti negli anni, Linda Potter. Avevano avuto quel figlio, lei e suo marito Michael, Piuttosto tardi, quando ormai pensava di non poter avere più figli: era un dono inaspettato e per questo tanto più caro e prezioso. Ultimi discendenti di una famiglia di Maghi Purosangue, avevano accolto la gravidanza come una festa, e adesso il loro figlio, James, si stava preparando per recarsi nella prestigiosa scuola di magia di Hogwarts.
Ma Linda era preoccupata. E non era solo per la sua vista, non solo perché adesso non avrebbe più avuto modo di stargli vicino come era stato fino ad allora. Il crescere solo, figlio unico di due genitori anziani troppo propensi ad accontentarlo, aveva fatto diventare James fin troppo sicuro di sé e delle sue capacità. Era eccellente, un ottimo studente e aveva carisma. Questo spesso si traduceva in un grosso limite, finiva per isolarsi, ed era per questo che ad undici anni non aveva davvero amici.
“In effetti, mamma credo di non vederci molto bene…”
“Lo avevo intuito… da quanto tempo?”
“Un mesetto, circa… non te l’ho detto per non farti preoccupare.”
Linda attirò a sé il figlio, con tenerezza e lo abbracciò. In quell’ultima estate, suo marito Michael aveva iniziato ad accusare dei malesseri. Cose piccole, normali in un mago anziano, ma da tenere sotto controllo. Tuttavia si era preoccupata. Sapere che suo marito stava poco bene le aveva dato il segno del tempo che passa ben più del trasferimento di James ad Hogwarts. E la sua ansia per il futuro era cresciuta.
“Non è nulla, davvero, mamma!”
“Va bene. Domani ti farai controllare da un Guaritore ed in caso compreremo un paio di occhiali prima della tua partenza.” Il ragazzino stampò un grande bacio sulla fronte della madre e corse via, giù per le scale.
“James, aspetta!” gli gridò dietro la madre.
Il ragazzo si fermò a metà delle scale, il viso impertinente rivolto in su: “Sì?”
“Cerca di non isolarti a scuola. Ricorda sempre che essere i migliori non significa fare sentire gli altri inferiori, finiranno per escluderti, come è successo anche qui, a Godric’s Hollows. Ricordati che a volte stare su un piedistallo significa stare nell’angolo.”
Il ragazzo sorrise, serio. Poi, corse via.


Sembrava strano che lì, a King’s Cross, esistesse una locomotiva di quel tipo, così deliziosamente retrò, un pezzo da museo così lucido tanto da sembrare fresco di fonderia.
Eppure sbuffi di fumo di carbone, la folla formicolante al marciapiede del binario stridevano rispetto a quella visione. Gente, gente dovunque. Ragazzi, per lo più, adolescenti. Mani che si salutavano e si stringevano, pacchi, bagagli, piccole gabbie con animali affollavano lo stretto marciapiede di mattoni.
In mezzo a quella folla, avanzavano quattro persone: una distinta coppia, lei in completo di tweed, lui in un robusto giaccone di panno verde. Si guardavano attorno stupiti, attoniti forse, ma non intimoriti. Curiosi sì, di sicuro. Li precedeva una piccola ragazzina minuta, con il volto sottile, occhi verdi e profondi, e due lunghi codini rossi. Chiudeva il gruppo un’altra ragazzina, un po’ più grande della prima, alta, magra, dal viso decisamente contrariato, con i capelli biondi raccolti in una coda. Succhiava un lecca lecca e strascicava pesantemente i piedi, guardandosi attorno con espressione disgustata.
D’improvviso la ragazzina rossa spalancò gli occhi, si arrestò per poi mettersi a correre.
“Severus, Severus!” chiamò, agitando la mano da sotto la mantella di lana blu.
Un ragazzo, poco distante da lei, si voltò a guardarla e si aprì in un sorriso caloroso. Aveva forse la stessa età di lei, ma sembrava molto più malandato, con un colorito quasi malaticcio, i capelli corti e neri appiattiti sulla fronte, i vestiti che dovevano aver visto tempi migliori. Si fece incontro e abbracciò con affetto la ragazzina. “Lily, ce l’hai fatta ad arrivare… temevo di non averti spiegato bene come attraversare la barriera!”
“Oh!”la ragazzina rise “non ho avuto problemi, ma mamma e papà erano un po’ perplessi su questa storia di attraversare un muro… e poi mia sorella Petunia ha voluto fermarsi a tutti i costi a comprare un lecca lecca, ecco perché abbiamo tardato.”
I due adulti si erano avvicinati, seguiti dalla ragazzina scontrosa: “Salve Severus… sei da solo?”chiese la signora in tweed, con fare gentile.
Il ragazzo abbassò lo sguardo, per poi rialzarlo, deciso: “Si signora Evans… i miei genitori erano occupati, mi hanno accompagnato qui alla stazione e poi sono…”
“Dillo che non vedevano l’ora di farti andare via!” La voce graffiante di Petunia li aggredì, accompagnata da uno sguardo perfido della sua proprietaria.
“Petunia!” la rimproverò aspramente suo padre. “Che modi sono questi? Chiedi immediatamente scusa!”
“Sssscusssa” biascicò la ragazza, continuando a succhiare la caramella.
“Oh, Petunia…” Sua sorella le si avvicinò, passandole un braccio attorno alla vita. “Ti prometto che non staremo lontane a lungo. Sai, mi è venuta un’idea: voglio chiedere al preside di fare una deroga, per ammetterti alla scuola… Severus mi ha raccontato che è un posto spettacolare, sia, dove ti insegnano a controllare la magia, e magari con il tempo tu potresti imp…”
“Non voglio nemmeno pensare di venire in quel posto di… di… mostri! Vacci tu, se ci tieni tanto, a renderti ridicola… questo non è normale!”ringhiò, quasi sputando le parole, allontanandosi dalla sorella con un gesto secco.
Lily aveva fatto ricadere le braccia lungo il corpo, lo sguardo sinceramente addolorato, gli occhi velati dalle lacrime. “Petunia… ma tu avevi detto che…”
“Non la pensavi così quando hai supplicato il preside Silente di prenderti ad Hogwarts… com’è che diceva la lettera, aspetta?” Severus aveva parlato a bassa voce, con cattiveria deliberata, per ferire la ragazza “Ah, si! Per favore, la prego, la supplico, non posso restare senza Lily, il mio più grande desiderio è venire ad Hogwarts per imparare la magia… strano che tu consideri dei mostri quei maghi cui spasmodicamente volevi unirti!”
Petunia si era fatta terrea in viso. Quasi sputando le parole aveva chiesto: “E tu come lo sai? Glielo hai detto tu, vero? Certo, la perfetta Lily Evans… vattene, allora, sparisci in quella tua scuola dove ti faranno spuntare certamente tre teste!” Con la faccia livida, gli occhi spalancati, si era allontanata correndo da sua sorella. Aveva poi urlato al padre, dicendo che di aspettarli in macchina e che non tardassero.
La madre delle due ragazze aveva portato la mano al viso, e aveva scosso la testa. “Mi spiace, Lily… tua sorella l’ha presa peggio di quanto ci aspettassimo… è insicura, lo sai e adesso… scusala, per favore…e anche tu, Severus… è stata molto… sgradevole, lo ammetto.”
Lily aveva tirato su le spalle, asciugandosi una lacrima pericolante sull’orlo delle ciglia. “Lo so mamma, ma è lei che non lo sa… per me sarà sempre mia sorella… ma…”
Quel “ma” rimase sospeso tra madre e figlia. Si guardarono, gli occhi del medesimo colore allacciati in un dialogo muto.
Sua madre aveva capito molto di più e molto prima ciò che lei stava vivendo, ciò che lei era. Sua madre, Mary Lee Evans era una donna di grande intelligenza; aveva avuto come tata, nella sua infanzia, una vecchia prozia che viveva con i suoi genitori, una straordinaria vecchietta che le raccontava storie meravigliose. Fra questa, la storia di sua nonna che era capace di trasformare una sheperd pie troppo cotta in un ottimo piatto e che sapeva fare i letti con un colpo di bacchetta magica. Perciò quando una mattina aveva trovato una lettera di pergamena sulla mensola del camino aveva avuto solo un attimo di smarrimento, e aveva ricordato i racconti della prozia Amy.
Era poi venuto un simpatico vecchietto, un funzionario del Ministero della Magia, così si era presentato, e le aveva confermato che sì, quella sua bis bis nonna o qualcosa del genere, era una strega, e che forse anche nella famiglia di Edward Evans c’era sangue magico risalente ad alcune generazioni precedenti.
Lei e suo marito avevano trascorso un’intera notte a parlare. Che fare? Mandare la loro secondogenita allo sbaraglio in un mondo… che non conoscevano? Eppure, era innegabile, Lily era strana. Aveva quel tipo di intelligenza emotiva, che le permetteva di “sentire” le persone, di riconoscere i loro stati d’animo, ma non solo. Gli oggetti si muovevano al suo sguardo, quando era molto arrabbiata, o felice, o spaventata. Sapeva individuare in modo esatto tutti gli ingredienti di una pietanza, senza averla preparata, e nelle quantità esatte. Una volta aveva stupito sua madre dicendole quante gocce di cognac aveva messo nel dolce, mentre lei era a scuola.
La mattina dopo sua madre aveva deciso: se questo era il suo futuro, che lo vivesse avendo le migliori possibilità. Aveva risposto a quella lettera sulla mensola del camino.
Poi erano arrivate le comunicazioni: Diagon Alley, il binario 9 e ¾… e adesso erano lì, con il figlio della sua vicina di casa, Eileen Prince Piton, che era anche lui “dotato”, come diceva suo marito.
Solo Petunia, la sua primogenita, non aveva accettato questo. In realtà aveva avuto sentimenti ambivalenti nei confronti di sua sorella e lei, che era sua madre, se ne era resa conto, con una buona dose di timore. Pensò con un sospiro che Petunia si era sempre sentita poco amata, ma non era vero. Era Lily che aveva la dote di saper trasmettere affetto in modo pieno, e rendeva facile agli altri il ricambiare quell’affetto.
Mary Evans si ripromise di stare più vicina alla figlia maggiore, di farla sentire più serena. Quasi in risposta a quel pensiero, Lily le aveva sorriso e l’aveva abbracciata.
“Allora buon viaggio, tesoro!”
“Grazie, mamma!” Si strinsero ancor di più. Poi Lily abbracciò stretto suo padre.
Edward Evans chiuse gli occhi, emozionato al pensiero di separarsi da sua figlia. Aveva pensato tante volte a quel momento a ciò che poteva significare, al fatto che sua figlia non sarebbe stata più la “sua” Lily, ma una persona diversa, una persona che stava per iniziare un percorso, una strada che lui non conosceva, su cui non avrebbe potuto guidarla, consigliarla. Sua figlia stava per iniziare un cammino nuovo e sconosciuto, che non era solo quello dell’adolescenza, era quello di un mondo che… lo spaventava. Ma che sapeva, con la tipica certezza che viene dal profondo del cuore, che era il posto giusto per lei. Sapeva di averle dato valori, e senso di responsabilità, sapeva che sua figlia aveva una forza di carattere non indifferente, e sapeva che anche per questo tendeva ad isolarsi, poiché richiedeva agli altri standard di comportamento molto elevati. Ma sapeva anche che Lily era una ragazzina dalla dolcezza non comune, e questo le faceva superare molti ostacoli.


Quando Orion e Walburga Black avanzavano non lo facevano come comuni maghi: no, loro fendevano la folla. Semplicemente, le persone spalancavano gli occhi e si facevano da parte per farli passare. Lasciavano dietro di sè una scia di silenzio cupo misto a mormorii intimoriti.
Del resto, i Black non guardavano chi li circondava: si limitavano a gettare ai propri simili lo stesso sguardo annoiato che avrebbero dedicato ad una mosca.
E anche adesso, mentre avanzavano lungo la banchina della ferrovia, la folla si divideva in due lai per farli passare, il figlio piccolino trotterellava in silenzio con la bocca socchiusa, cercando di nascondere lo stupore tutto infantile dietro ad uno sguardo che voleva disperatamente essere serio, ma che riusciva solo ad essere buffo.
L’altro ragazzo, più grande, in costosi abiti da mago, si guardava attorno con occhi insolenti, studiando il mondo come se gli appartenesse, con una frangia troppo lunga e ciuffi di capelli scuri che gli ricadevano sulle spalle. Era un ragazzo molto carino, che sapeva di esserlo.
Arrivarono davanti al portellone di una carrozza. Istantaneamente si fece il vuoto attorno a loro. “Sirius, il biglietto?”
Senza parlare il ragazzino dallo sguardo insolente tirò fuori un piccolo cartoncino. Guardò i genitori in viso. Per la prima volta sentiva la tensione che gli aveva sempre bloccato lo stomaco allentarsi. Via da quella casa, via dai sui genitori. Libertà. Era il primogenito della nobile casata dei Black, era arrivato finalmente il primo momento di autonomia, sognato da sempre.
“Laggiù ci sono le tue cugine. Ti accomoderai con loro.” Ordinò la donna, seria nel suo lungo abito scuro.
“Sì mamma. Anche a me spiace andare!” pensò ironicamente Sirius, ma non rispose. Si limitò ad annuire. Volse lo sguardo a suo padre. “Sii all’altezza del nome che porti, Sirius. Ricordati che provieni da una delle più importanti casate…”
“… Di maghi Purosangue che hanno onorato la Magia e che non si sono mai mescolate con certa marmaglia Babbana. Sarebbe stato meglio mandarti a Durmstrang, dove solo i Purosangue vengono accettati, ma tua madre ha insistito perché restassi qui in Gran Bretagna…” Il ragazzo conosceva quella solfa a memoria. Gli era stata ripetuta almeno cento volte da quando era giunta la lettera di ammissione alla scuola e ormai non la sentiva più. Si voltò appena in tempo per rispondere all’ultima frase di suo padre: “Fatti onore, Sirius, e fa onore alla casa di Serpeverde.”
“Certo, signore.” La disciplina innanzi tutto, in casa Black.


Padre e figlio arrancavano lungo la banchina. Che fossero padre e figlio lo si capiva subito: stessa corporatura dinoccolata, stessi occhi chiari, stessi capelli biondo cenere. Soprattutto, stessa espressione rassegnata in viso. Scansavano con fatica i bauli degli altri viaggiatori, parlando fitto tra loro. “Hai preso la lettera per il preside, vero Remus?”
“Sììì papà: è la quarta volte che me lo chiedi. E mi comporterò bene, non darò nell’occhio, e… terrò sotto controllo il problema” concluse il ragazzo con un sospiro pesante.
Si fermarono a poca distanza da un gruppo di maghi, sicuramente ricchi o nobili, a giudicare dall’atteggiamento e dalle vesti che indossavano. C’era tra loro un ragazzino che indossava abiti che, da soli, dovevano costare quanto tutti i suoi abiti nel baule. Lo fissò con una punta di invidia e quello ricambiò il suo sguardo. Ma non c’era altezzosità nel suo sguardo, solo curiosità.
A disagio, Remus Lupin distolse lo sguardo, avvertendo l’invidia crescere: non navigavano nell’oro, la malattia e la morte della mamma li avevano prosciugati di molte risorse materiali e spirituali. Suo padre gli aveva preso la mano e con delicatezza gli accarezzava il polso, dove occhieggiava un vistoso livido.
“Mi spiace doverti legare quando…”
Il ragazzo scosse la testa: “Lo so, papà. Potrei diventare pericoloso, e aggredire qualcuno.”
Il padre, un uomo segnato anzitempo da troppe disgrazie studiò il ragazzo, con orgoglio. “Sei cresciuto in fretta, sei maturato Remus… il tuo problema, la morte di tua madre, e tutto il resto…”
“Lo so,”disse il ragazzo in tono fermo. Non amava parlare del bagaglio di problemi che si portava appresso. Non voleva essere compatito. Era già brutto combattere ogni mese con “gli istinti del plenilunio”, come li definivano i Guaritori. Non voleva ricordare la sofferenza di sua madre, i suoi ultimi giorni, il dolore della morte.
“Ti ho messo dei panini nella sacca e del succo di zucca. Mandami un gufo appena arrivi e fammi sapere cosa ha preparato il preside Silente per te. E’ una grande persona, quell’uomo. Ti ha ammesso nonostante… quello!”
Gli era stata data una grande opportunità, Remus Lupin ne era consapevole. La vita non era stata buona con lui. A cinque anni, per vendetta nei confronti di suo padre, era stato morso da un lupo mannaro, Greyback, e da allora ogni luna piena significava una mutazione dolorosa. Alzò gli occhi verso le travi altissime del soffitto di metallo nero, appena velato di fumo. La luna piena era stata due notti prima, avrebbe avuto poco meno di un mese di pace, adesso. Parlò, dolcemente: “Non ti preoccupare, papà. Grazie piuttosto, di avermi accompagnato.”
Si abbracciarono, con affetto. Remus avvertì addosso lo sguardo del ragazzino ricco: adesso stava guardando lui con invidia.


Una madre affannata,scarmigliata, correndo, sbatacchiando la borsa qua e là urlava a chiunque le sbarrasse il passo “Permesso!”. Trascinava dietro di sèun ragazzino grassoccio, impacciato che a sua volta trascinava un bagaglio troppo pieno.
“Ecco, uffh…. Peter, Peter, il biglietto, svelto. Sali, sei in ritardo, dai, muoviti!”
“Mamma, aspetta!”
“No, non rallentare! Vuoi farti notare subito perché sei ritardatario? Mi raccomando a scuola. Fa sempre qualche domanda ai professori, che apprezzano chi partecipa, fermati sempre a chiedere chiarimenti, mi raccomando. E cercati subito dei compagni che siano in gamba, è importante avere amici importanti!”
Peter ansimava. Quante volte sua madre gli aveva ripetuto quelle frasi? Non era sciocco, lui.
“Ecco! Sali! Da bravo, vai a cercare un posto…”
“Mamma, il treno sta partendo!”
“Cielo, è vero! E tuo padre? Dov’è tuo padre? Starà girando ancora in tondo a cercare posto per la macchina?”
Decisamente, sua madre Annie Pettigrew non aveva il dono del controllo di sè, si disse il ragazzo.
“Mamma, non ce la farà a venire, salutalo tu per me”
La madre si chinò leggermente in avanti e gli mise in ordine i capelli chiari. Ansimava ancora, ma si stava rasserenando. “Mi raccomando, Peter. Niente amicizie scapestrate. Studia, e mandami un gufo appena arrivi. Ti prego di scrivermi spesso, lo sai che sto in ansia, fammi sapere i tuoi voti. Ecco, vieni qua, dammi un bacio, da bravo, adesso sali!”


Il treno, sferragliando, soffiando aveva iniziato la sua marcia. Come un gigante addormentato che si risveglia, aveva iniziato a muoversi sempre più velocemente, mentre i ragazzi si attardavano a salutare i genitori dai finestrini.
“Vieni, Severus, sediamoci. E’ libero qui, vero?”
Lily aveva chiesto ad un ragazzino seduto da solo accanto al finestrino. Questo l’aveva fissata attraverso i suoi occhiali, ed aveva annuito: sembrava seccato di aver compagnia. Teneva tra le mani una rivista che parlava di Quidditch, lo sport praticato nel mondo magico.
Lily si era sistemata davanti a lui. Era incuriosita.
“Cosa stai leggendo?”
Il ragazzino tirò su gli occhiali con un dito. Era appena il secondo giorno che li portava e non si era ancora abituato all’idea di quel “trespolo” sul naso. “E’ Quidditch Premiere Ligue di ottobre. Non lo conosci?”chiese con aria di sussiego.
Questa risposta indispettì la ragazzina. “Se l’avessi conosciuto non te lo avrei chiesto, non credi?” Severus ridacchiò e scambiò uno sguardo con l’amica. Finì di sistemare il bagaglio sulla reticella e si mise a sedere accanto a lei.
Sulla porta comparve un ragazzo vestito semplicemente, con i capelli chiari: “C’è posto qui?”
Lily sorrise. “Sì, accomodati pure”. Il ragazzo con gli occhiali si limitò a lanciargli un’occhiata di sbieco, per poi tornare ad immergersi nella lettura. Il nuovo arrivato prese posto accanto alla porta d’ingresso, sistemando una sacca da cui proveniva un delicato profumino di cibo.
A qualche scompartimento di distanza, Sirius salutò le cugine. Erano tre bellezze, tutte e tre differenti per carattere, tanto da non sembrare neanche sorelle, sebbene una certa somiglianza fisica accomunasse Bellatrix ad Andromeda. Avrebbe dovuto viaggiare con loro, ma non ne aveva la minima intenzione. Solo Andromeda, la maggiore delle tre, l’aveva salutato con calore.
“Che bello, Sirius? Anche tu ad Hogwarts!”
“Sì… per te è l’ultimo anno, vero?”.
La ragazza, con espressionegentile aveva sorriso: “Purtroppo sì, e credo che la scuola mi mancherà molto.” Aveva avuto una piccola incertezza nella voce. Sirius intercettò lo sguardo della cugina, gettato al di sopra delle sue spalle: un ragazzo in abiti Babbani, dagli occhi scuri si era fermato davanti allo scompartimento e le aveva sorriso.
“Hai visto, Narcissa? Nostra sorella ha un ammiratore Mezzosangue!” La voce squillante di Bellatrix Black, la minore delle tre sorelle, fece voltare Sirius. “Cugina Bella… direi che è un piacere vederti se non fosse per quella tua voce così soave. Devo farti gli auguri? Mi è giunta voce di un tuo fidanzamento… con uno dei Lestrange, giusto? Non è un po’ presto? Non hai ancora finito la scuola… o è un fidanzamento combinato come quello di Narcissa con Biondo Platino Malfoy? Se la passa bene la sua famiglia, mi hanno detto… Sì, che l’amore viene dopo!”
Narcissa, gli occhi ridotte a due fessure si alzò, infuriata, seguita dalla sorella: “Brutto piccolo sudicio esemplare di feccia Babbana… ti faccio vedere io!”
“Spiacente, Narcissa, non posso fermarmi nonostante il tuo cortese invito. Bella, non è stato un piacere. Andromeda, servo tuo. Buona giornata, signore.” E detto questo uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
Si era liberato dello scomoda compagnia delle cugine. Ma adesso doveva trovarsi un posto per il viaggio, e subito: attorno a lui quasi tutti gli altri avevano preso posto ed ora c’era un viavai di gente che salutava. Vide un ragazzino piccoletto e grassoccio arrancare lungo lo stretto corridoio, fermarsi ed entrare. Sirius, si tolse il pesante mantello di panno che lo impacciava e, con andatura veloce, controllò tutti gli scompartimenti, fino a che non giunse a quello dove era entrato il piccoletto. Quest’ultimo era seduto tra la porta e un ragazzo dai capelli lisci e neri. Un solo posto era rimasto libero, tra uno che stava leggendo Quidditch Premier Ligue e quell’altro ragazzo che aveva visto al binario e che lo aveva incuriosito, quello che il padre aveva abbracciato con affetto. “E’ libero?” chiese speranzoso.
“Sì." A rispondere con un sorriso era stata una ragazzina, poco più di una bambina, dai lunghi codini rosso mogano. Sirius si sedette, e subito allungò lo sguardo sulla rivista del vicino: “Non credo che i Cannoni abbiano molte opportunità di vincere il campionato, quest’anno” esordì, cauto. L’altro sollevò lo sguardo: “Forse se cambiassero tutta la squadra prendendo delle libellule al posto di quelli che hanno, avrebbero più possibilità”. Sirius rise e l’altro ragazzo, che si trovava alla sua sinistra interloquì: “Basterebbe far volare le scope da sole per far migliorare la squadra”. Risero di nuovo. Avevano spezzato il ghiaccio e d’improvviso, tutti ebbero voglia di parlare.
Lo scompartimento era al completo. Il loro viaggio era iniziato.

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